Primavera di bellezza o una passeggiata con il cane

di Manuela Piemonte

Insensibile al silenzio mordace, Johanna fissava stancamente la strada. Si riscosse all’arrivo di un’auto, roboante, malsana di quattro passeggeri, una specie di orrore. La scansò a testa alta e filò via superando la statale desolante, orientandosi sull’alone funereo del sentiero scavato nel primo pezzo di prato dai passi dei molti che da sempre andavano da lì ogni giorno. Era un percorso deciso in tacito accordo tra tutti i padroni di cani: rasente il campo di calcio abbandonato, fino alla prima collina piena di alberelli macilenti e tristi, e poi a costeggiare gli orti comunali, l’ultimo baluardo di civiltà prima che davanti ai suoi occhi si aprisse la spianata del parco agricolo.

Distese di campi colti e incolti, a sinistra quello ricoperto di liquido letame ancora marcescente, a destra la villa – forse abusiva – di un vecchio proprietario terriero. In mezzo il sentiero sterrato, che questa primavera non avrebbe più avuto l’ombra lussureggiante dei platani secolari, che di recente – come avveniva già cinque anni prima, sotto la precedente giunta di destra – erano stati tagliati, si diceva perché malati, e non si capiva come mai fino alla primavera precedente fossero stati perlopiù sani e robusti, maestosi nel modo in cui offrivano ombra al viandante a seconda dell’ora del giorno, disposti in modo sapiente da contadini spariti da quella pianura ormai da almeno un secolo, distrutti loro nelle membra dall’età e dalla fame e a poco a poco distrutto anche il loro mondo.

La cascina era diventata un teatro e una biblioteca, e un’altra magione identica cadeva a pezzi a uso degli scaricatori di rifiuti abusivi a metà tra quel comune e la sua frazione, proprio nel cuore del parco agricolo.

Johanna strinse gli occhi e ascoltò: neppure un ramo spezzato, né un sospiro a dare segno di vita umana. Poi attraverso le porte trasparenti dell’ingresso del teatro un’ombra fugace la scosse. Qualcuno passeggiava alle spalle dell’edificio e bisognava andare subito in senso opposto, evitando la possibilità di un incontro con un cane sconosciuto e libero, perché questo faceva la pandemia, la gente liberava i cani che non avrebbe dovuto, e se sprovvista di cane in ogni caso deviava dal marciapiede incontrando un altro essere umano, e niente più di quel gesto – del modo in cui lo si voleva compiere – rivelava la natura di chi lo compiva. Pochissimi a osservare il metro di distanza accennando comunque un saluto, come a dire che lo sappiamo, siamo tutti costretti a questo, altri – le era capitato che fossero perlopiù i benvestiti, che costeggiavano il condominio residenziale più prestigioso del paese – abbassavano lo sguardo e alzavano la mascherina fino agli occhi, come a dire che anche nella pandemia erano superiori e quindi possibili vittime, a rischio, soltanto loro, e dicevano in quella frazione di secondo di sentirsi, più che spaventati, essenzialmente migliori.

Migliori anche le speranze della coppia di adolescenti, un ragazzo e una ragazza, che erano corsi a sbaciucchiarsi in mezzo ai campi a fianco alla colata di letame, lì avvinghiati e poi, poco dopo, a un metro di distanza lungo il sentiero dove altri avrebbero potuto osservarli – altri oltre a Johanna, che con il cane s’era infilata proprio nel campo erroneamente supposto meno battuto – come perfetti sconosciuti, pronti a tornare alle loro famiglie, magari pronti anche a spargere il virus, certo, ma perché era stato troppo forte, irresistibile, l’amore. Forse a loro apparteneva anche la carta di preservativo che Johanna aveva trovato la mattina precedente, lasciata lì di notte, di sicuro, perché la pandemia fermava tutto ma non gli amori clandestini.

Stringendo ancora gli occhi per controllare l’avanzata nemica di gruppi di tre o quattro persone – ce n’erano tante – in arrivo da est, si poteva scorgere la ciminiera altissima della fabbrica a trenta chilometri da lì. Capitava spesso di vederla nei giorni di bel tempo, ma intanto un cielo caricante pioggia si era raggrumato sopra il parco agricolo, mentre là, nel punto della ciminiera, splendeva un sole altissimo, a dire che il progresso non era servito a nulla, a indicare com un dito di Dio il punto esatto e preciso della fine di un mondo, lo vedete?, qui risplende la vostra fabbrica che adesso, tra poco, come voi, per il virus si ferma.

Il cane fiutò un pericolo e si fermò tre passi avanti a Johanna, che lo raggiunse e lo rimise al guinzaglio, mentre intorno cinguettavano i fringuelli, un picchio scandiva il ritmo del suo richiamo, frusciavano tra i rovi di more le creature più strane che fosse possibile immaginare, e i fiori di ciliegio si preparavano a sbucare dai rami, a ricordare che lì una volta era tutta campagna e vita dura, di stenti, e che da lì era passato Renzo uscendo da Milano, andando verso est, avanti fino a Gorgonzola, là dove all’ingresso del paese passando in bicicletta si osava ancora, fino a pochi giorni prima, guardare la stele sormontata da una croce in ferro battuto a indicare l’antica sede del lazzaretto in cui, nel Seicento, si portavano a morire i malati. Era sempre sembrata soltanto un vecchissimo pezzo da museo.

Johanna considerò che un giorno sarebbe stata da museo anche questa primavera di bellezza, la vita della natura ricominciava mentre le persone dovevano chiudersi in casa, le margherite sbucavano nei prati tingendo di bianco le distese celesti dei non ti scordar di me, insensibili alla voce femminile che, da dieci chilometri di distanza, dall’altoparlante di un’auto in corsa decretava la necessità di fare tutti la propria parte e stare chiusi in casa, una voce così potente nel silenzio sconfinato, da misurare, nella sua forza, la gravità della situazione.