Che cos’è la provincia?

Che cos’è la provincia?, mi chiedevo ieri mentre di sabato a mezzogiorno e mezza mi aggiravo nel parcheggio di un centro commerciale da film di George Romero in cerca di un posto libero in cui lasciare il carrello con cui avevo fatto la spesa. Il posto libero non c’era, perché senza persone in giro anche i carrelli spostati erano pochissimi. Sono dovuta tornare alle scale mobili, accanto all’uscita, dove il carrello l’avevo preso. C’era un signore che vagava come me da un punto all’altro del parcheggio, si è voltato a guardarmi e gli ho detto che non c’erano posti liberi. Lui ha agganciato il carrello nello stesso punto, vicino alle scale, ma prima di andarsene non mi ha salutato. In effetti, perché salutare, siamo in provincia, è vero, ma non ci conosciamo. Prima di andarmene nel parcheggio ho contato sì e no dieci automobili. Alle casse non ho fatto neppure un istante di fila.

Forse è questa, mi sono detta, la provincia, la parte rassicurante della pandemia, il posto dove comunque non fai nemmeno più la fila al supermercato, perché con i negozi chiusi e le serrande abbassate la gente al supermercato non ci va più. E chissà dove vanno, ora, a passeggiare e osservare le vetrine.

Che cos’è la provincia?, mi domando ogni volta che il posto in cui abito, Cassina de’ Pecchi, è sulle prime pagine della cronaca di Milano e nazionale. 

Nell’ultimo anno è accaduto almeno tre volte.

La prima, perché un’azienda agricola considerata sostenibile e molto famosa in tutta Milano è stata messa sotto sequestro per caporalato. Nessuno si era mai chiesto come facessero a produrre i loro frutti di bosco, se non con della mano d’opera a basso costo, eppure tutti si sono sorpresi.

Settimane fa invece in paese giravano troupe televisive alla disperata ricerca di qualcuno da intervistare per discutere dell’ordinanza della polizia municipale contro la prostituzione. Se avessi avuto un legame con la politica locale avrei aderito alla protesta femminista di fronte al municipio, ma è difficile scendere in piazza con chi di solito quando vuoi salutare si gira dall’altra parte, e ho rimpianto le belle manifestazioni di città in cui ti confondi in una folla anonima e senti di essere tutt’uno con chi crede nel tuo stesso ideale. La polemica è partita da una notizia piccola che però ha girato il web e alla fine c’è stata pure l’intervista della sindaca in collegamento con Barbara D’Urso. Titoli da cliccare su tutti i principali quotidiani. Certo, non so quanti avessero letto l’ordinanza cercando di capire veramente cosa c’era scritto, in fondo per fare i titoli in prima pagina non serve. La stessa ordinanza prevede provvedimenti anche contro l’accattonaggio, ma questo non mi pare abbia dato fastidio a nessuno.

Ora apro Twitter e trovo sfilze di giornalisti che condividono la notizia dell’apertura di quella che secondo me è un’eccellenza del territorio, o almeno me lo auguro, cioè PizzAut, prima pizzeria d’Italia gestita da ragazzi autistici, finalmente hanno aperto la sede, i lavori di apertura erano rimasti bloccati proprio a causa della pandemia.

Che cos’è, la provincia? Ecco, nell’ultimo anno mi è chiaro, finalmente, che cos’è la provincia: è il vostro luogo dell’immaginazione, il posto in cui accadono solo cose tremende o cose favolose, bellissimi miracoli o orribili mostruosità. L’importante è che la provincia non sia mai un luogo reale, e che sia sempre altrove.

Incontri (o da dove arrivano le storie)

È il 2013 quando in un mattino di agosto, in cerca di una spiaggia dalle parti di Carrara, seguendo cartelli a caso che indicano il mare, finiamo a Marina di Massa. Un posto nuovo e mai visto prima, da osservare con la curiosità di quando si è bambini. Parcheggiamo dove capita. Scegliamo uno stabilimento lì vicino. Poi, una volta preso l’ombrellone, steso il telo sulla sdraio, messa la crema solare, mi guardo bene attorno e alla fine mi volto. 

Solo allora mi rendo conto che alle spalle dello stabilimento corre un lungo edificio di due piani, bianchissimo alla luce del sole. Inconfondibile architettura razionalista. Sulla facciata ricompongo le lettere mancanti. Gioventù Italiana, colonia Torino. 

In quel momento torna il ricordo di quando da bambina andavo in vacanza in una colonia estiva. “Chissà com’era” mi chiedo subito, “vivere quell’esperienza ai tempi del fascismo.” E in quelle lettere tirate giù dai decenni, in quei vuoti misteriosi e scomparsi, intuisco in un istante che c’è qualcosa da raccontare. Sì, ma cosa? 

Teniamola lì, mi dico, quest’idea. Farò qualche ricerca, mi riprometto. Intanto adesso vado a fare il bagno. E magari poi un giorno la cosa che ho appena visto diventerà una storia. 

La coscienza di Zeno e Piccole Donne

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Pubblicato nel 1923, La coscienza di Zeno è spesso, soprattutto, un passaggio obbligato per il lettore e lo studente che sta crescendo. Lo ritrovi nell’antologia, lo senti agitarsi come uno spettro tra le tracce dei temi della maturità, e ancora all’università, esame di Letteratura Italiana. Lì viene bollato come Classico e non è certo la lettura che troverai facilmente (purtroppo) sotto l’ombrellone, né nel carrello dell’appassionato di libri. Insomma, chissà se c’è chi lo ha letto per caso, aprendolo senza aspettative, senza quell’aura da “libro che bisogna leggere” che hanno a volte i classici.
Ben diversa è la storia di un altro classico, Piccole donne, che Louisa May Alcott scrisse tra il 1868 e il 1869, da tutt’altra parte rispetto alla Trieste austro-ungarica di Svevo (pseudonimo di Aron Hector Schimtz), eppure così vicina, per molti versi, tra le pagine dei due libri.
Questo fanno le storie, quando gli autori lo vogliono e lo sanno fare, si incontrano e si incrociano, e sta a noi lettori riscoprire  influenze a volte evidenti, a volte sottili.
Tanto abbiamo sentito dire o abbiamo letto o ricordiamo di Zeno Cosini, dall’unica volta almeno in cui ce lo avranno fatto leggere – magari – al liceo, quel romanzo dal titolo La coscienza di Zeno.
Lui e la sua ultima sigaretta, che promette essere davvero l’ultima, per anni, senza mai smettere.
Lui che è l’inetto.
Lui che uscì dalla penna dell’autore anche grazie al fatto che a Trieste Italo Svevo conobbe James Joyce e da qui l’influsso di questo scrittore, e poi della psicanalisi, su un’opera che è oggi considerata uno dei capolavori della Letteratura italiana del Novecento.

“Un grande amico di papà fu James Joyce. Mio padre, che si recava spesso a Londra per curare da vicino gli interessi della filiale inglese della ditta Veneziani, decise di studiare bene l’inglese e di prendere una serie di lezioni da Joyce, allora giovanissimo professore alla Berlitz School di Trieste (eravamo, credo, nel 1907). Joyce cominciò a venire in villa Veneziani e a dar lezioni a mio padre e a mia madre.” *

In tanta letteratura e in tanto incrocio di esistenze c’è anche, tra le pagine de La coscienza di Zeno, una meravigliosa citazione di Piccole Donne. Così evidente da sembrare banale: Zeno che va a incontrare una famiglia benestante, i Malfenti, già deciso – in pratica – a chiedere la mano di una di quelle quattro figlie, prima ancora di conoscerle. E quando se le ritrova di fronte, se si è freschi della lettura di Piccole Donne, ma anche se si tiene a mente Alcott senza dimenticarla mai, il parallelismo è evidente. Le sorelle sono Meg, Jo, Beth e poi la piccola Amy.
Se anche avessimo dubbi, due delle sorelle Malfenti in particolare indicano quanto il parallelo voglia essere forte.
Quando Zeno, rifiutato da Ada, fa la sua proposta di matrimonio ad Alberta, lei dice :
“Io non voglio sposarmi. Fore mi ricrederò, ma per il momento non ho che una meta: vorrei diventare una scrittrice”.
Non è questa forse la voce stessa di Jo?
E che dire di Augusta, che suona il pianoforte proprio come la meno appariscente delle sorelle March, Beth? Del resto anche la piccola Anna Malfenti, così dispettosa, ricorda per molti aspetti Amy. C’è un continuo rimando di ruoli, archetipi e topoi; così è una delle sorelle Malfenti a morire di malattia,  come in Piccole Donne muore una delle sorelle March.

Evviva allora Italo Svevo, che scrivendo un romanzo sempre attuale, fresco, ironico, al di là dello spazio e del tempo e dell’icona di classico, sorprende così tanto, ancora, con questa meravigliosa citazione, e ci ricorda che i confini nelle storie non esistono. Siamo noi a inventarli, a stabilire l’alto e il basso, eppure il capolavoro letterario e quello più popolare si parlano e si ascoltano, e ci dicono, anche cento e più anni dopo, che noi di tutte le storie abbiamo bisogno, le alte, le basse, quelle di nicchia e quelle popolari. E sempre ne avremo bisogno.

* Vedi Svevo, Joyce: storia di un’amicizia.

Julio Silva

Julio

La prima volta in cui ho parlato con Julio Silva, nel 2005, avevo solo un numero di telefono trovato su Internet. Mi ero fatta spiegare come dire in francese “Bonjour, je voudrais parler avec Julio Silva” . Uno squillo e Julio rispose: “Oui c’est moi meme”. Ma io non capii e dissi ancora “Bonjour, je voudrais parler avec Julio Silva”, e allora mi disse di parlare in italiano.

“Ma lei è proprio l’amico di Julio Cortázar?” gli domandai.

“Sì”

“Scusi ma non mi aspettavo di trovarla così facilmente”.

“Ah be’ non sono ancora morto” rispose, ridendo.

Ma è morto sabato, all’età di 90 anni. Chi ha navigato le pagine dei libri di Julio Cortázar ci ha trovato dentro spesso lui, citato per nome e cognome, e anche sua moglie, Catherine.

Julio è (è stato, sarà) un maestro di immaginazione, con i suoi quadri e le sue sculture, ma anche con un modo di essere che è quello che troviamo nei cronopi di Cortázar, e un maestro di un modo di stare al mondo, essere se stessi, con ironia e gioco, quando va tutto bene ma anche di fronte alle difficoltà.

Grazie a lui ho scoperto mondi immaginari a cui, altrimenti, non sarei mai arrivata, come quello legato alla costa di Marina di Massa, così vicina alla sua casa di Torano, sulle Apuane, una casa con i muri in un fianco della montagna. Da lì fin dagli anni Sessanta ha creato sculture meravigliose.

Ciao, Julio.

 

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Foto di Pierre Boulat a casa di Julio Silva, Parigi, con Julio Cortázar e Olivier Silva (1969).

I giocattoli degli anni ’80 e Thomas Mann

Ti ricordi quel gioco con la sabbia magica che andava di moda negli anni Ottanta? Aveva una pubblicità con la fotografia di una specie di acquario, e ti prometteva di poter creare un regno sottomarino incredibile. Ne potresti aver avuto uno, almeno una volta, e averci giocato e averlo poi dimenticato.
Perché magari la mente va altrove.
Perché non possiamo ricordarci proprio tutto.
Perché i ricordi sono questo e non li possiamo controllare.
Così come non puoi controllare il ricordo di abitudini da vita di campagna, andare nei prati a raccogliere le more, a succhiare il nettare dai fiori, u gioco che imparavi con il passaparola, te lo insegnavano i bambini più grandi di te.

Tutti questi ricordi adesso mettili da parte, facci passare sopra anni e anni di vita, di lotte, di gioie e soddisfazioni, di alti ma anche di bassi, di dolori; alcuni che ci infliggiamo, altri come la pandemia che ci capitano e se capitano sembrano a volte quasi insormontabili, e in mezzo a tutto questo può capitare di avere il tempo e la voglia – soprattutto la voglia – di leggere finalmente quel libro che tenevi lì tra i tanti, che avevi sempre rimandato, che sembrava pesante e inquietante, perché parla di vendere l’anima al diavolo, argomento a cui perlopiù è preferibile non pensare.

Chissà perché anche se ti inquieta lo leggi, forse perché così un’inquietudine ne scaccerà un’altra, così ti trovi tra le mani il Doctor Faustus di Thomas Mann. Traduzione di Ervino Pocar, una vecchia edizione Mondadori lasciata a prendere polvere per anni.
Difficile, leggerlo, ma almeno vuoi fare un tentativo, del resto sono mesi che leggi poco o niente perché di giorno lavori così tanto che, arrivata sera, ti fanno male gli occhi e non apri libri né fumetti, non vedi le serie tv né i film, chiudi gli occhi e dormi il prima possibile, chiedendoti se valga poi la pena. Ora con la pandemia non sai più chiederti neanche questo.

Ma come l’umanità ti sorprende in negativo – c’è chi in piena pandemia dice ancora di sentirsi fortunato ad avere il posto fisso, come se questa cosa non lo riguardasse, e c’è chi pensa di fare come vuole, chi (come ci avevano già insegnato i racconti della Seconda guerra mondiale e delle crisi economiche più pesanti) non ha umanità da tirare fuori in situazioni che si annunciano estreme, ma soltanto pochezza, povertà d’animo, o forse una carenza di ciò che ci rende davvero umani (ti ricordi Il figlio di Saul?), ecco… come l’umanità ti sorprende in negativo, l’incastro del tempo e delle vite sorprende anche in positivo. Allora in tutte queste carenze e pochezze, aprire un libro e leggere, e ritrovarci dentro in modo del tutto inaspettato un po’ della propria infanzia, può sembrare un evento straordinario. (Su che tipo di padre fosse l’autore del libro, magari ne parliamo un’altra volta.)
Ma non è incredibile che un classico della letteratura scritto nel 1947 ti faccia questo effetto, ti faccia ricordare punti dell’infanzia che avevi dimenticato?
I libri servono ancora, ci serviranno sempre. Speriamo.

Doctor Faustus, terzo capitolo

[…] Si vedeva poi che quelle piante erano tutte di origine inorganica, formate col concorso di sostanze che provenivano dalla farmacia dei “Beati Apostoli”. Prima di versare la soluzione di silicato di potassio Jonathan cospargeva la sabbia del fondo con diversi cristalli, che, se non erro, erano cristalli di cromato di potassio e di solfato di rame, e da questa semina si sviluppava, per un processo fisico che si chiama “pressione osmotica”, quella prole degna di compassione per la quale il suo tutore cercava di cattivare le nostre simpatie. Ci spiegava infatti come quei pietosi imitatori della vita fossero avidi di luce , “eliotropici” come dice la biologia. Per noi esponeva l’acquario alla luce del sole dopo averne mascherato tre lati ed ecco in breve tutta quella problematica famiglia di funghi, di tentacoli fallici, di alberelli e di alghe, nonché di membra semiformate, si volgeva verso quel lato del recipiente dal quale entrava la luce, e vi si volgevano con una brama così nostalgica di calore e di gioia che quasi si aggrappavano e si appiccicavano al vetro.
– E dire che sono morti! – commentava Jonathan con le lacrime agli occhi mentre Adrian, io lo vedevo, era scosso dal riso represso.
Per parte mia non volgi decidere se questa sia roba da ridere o da piangere. Dico una cosa sola: simili fantasmagorie sono affare esclusivo della natura, specialmente di questa natura che l’uomo si incapriccia di tentare. Nel dignitoso regno degli humaniora si è al riparo da siffatti fantasmi.

Doctor Faustus, quarto capitolo
[…] Ricordo il ribes dell’orto, del quale ci passavamo i grappoli tra le labbra, l’acetosella del prato che assaggiavamo, certi fiori dalle cui fauci sapeva succhiare uno pinzino di nettare delizioso, le ghiande che masticavamo supini nel bosco, le more purpuree cotte dal sole che raccoglievamo nelle macchie lungo la strada e il cui succo asprigno spegneva la nostra sete infantile. Eravamo fanciulli.

Dieci anni dopo

Il 17 ottobre 2006 mi alzo presto, molto più presto del solito, perché il giorno prima andando in ufficio in metropolitana ho sentito uno di quegli avvisi in filodiffusione con cui annunciavano lo sciopero di una sigla sindacale di cui non ho nemmeno provato a memorizzare le lettere, una di quelle minori, e allora ci siamo messe d’accordo, io e la mia collega Alessandra Lisi, ci siamo dette che se c’è davvero sciopero,– ma alle volte non si riesce a sapere, se non è uno sciopero generale, e non si sa mai come scoprire se è o no confermato –, ecco ci siamo dette nel dubbio veniamoci presto in ufficio, molto più presto del solito, così alle otto prendo la metro, alle otto e mezzo arrivo nell’ufficio in un palazzo signorile, un palazzo che appartiene a una figlia di nobili, in una traversa di Piazza Clodio, a Roma, a pochi metri dalla sede della RAI. Di solito arrivo in ufficio alle dieci, perché tanto ho un contratto a progetto e non devo timbrare, ma il 17 ottobre 2006 va così, e mentre aspetto mi dico che magari per una volta potremmo andare a prenderci un caffè, io e Alessandra, non usciamo quasi mai durante la mattina, e non pranziamo neanche insieme spesso… è che siamo in questo piccolo ufficio, di quattro persone, piccolo ma in realtà è un centro di ricerca internazionale, dove Alessandra è l’unica statistica e fa un lavoro importante, e io lavoro con lei ma non ho ancora deciso cosa fare nella vita… mi sono laureata da poco, avevo quel lavoro come webmaster, me lo tengo e lo continuo, ma il dubbio è quello che mi spinge in pausa pranzo ad andarmene un po’ per i fatti miei… e quindi alle volte, poche volte, pranziamo insieme, io e Alessandra, un giorno siamo anche andate in un negozio aperto da poco, durante la pausa, e le ho fatto vedere i vestiti bellissimi che hanno, di una marca di abiti danese, roba un po’ retro e anche cara, per il mio stipendio, e pure per il suo, ma con qualche sconto e qualche offerta qualcosa si può comprare… per esempio ho comprato un abito verde ricamato qualche mese prima, a luglio 2006, per il matrimonio di un’amica, e mi ha accompagnata Alessandra a prenderlo e quell’abito l’ho messo molte volte negli anni, uno dei miei migliori investimenti, e quando lo metto vorrei chiamare Alessandra e dirle “hai visto, ce l’ho ancora”, ma non lo posso fare, e anche lei si era presa un abito, un bell’abito autunnale, scuro, con una stampa di design, un abito raffinato, se lo voleva mettere per qualche occasione, un aperitivo o una cena, e invece non se lo è mai messo… ecco davvero come una stupida quando mi metto quell’abito verde mi dico “lo vedi se avessi potuto chiamarla”, ma del resto anche quando eravamo colleghe non è che ci telefonassimo, non è che tutti i colleghi e le colleghe sono così tanto amici tra loro, ma nell’estate del 2006 eravamo d’accordo sugli abiti e sui calciatori, e ditemi quale donna eterosessuale in Italia quell’estate non era stata a rimirare i calciatori in una famosa pubblicità di Dolce & Gabbana, ecco ad Alessandra piaceva Cannavaro, ma a me no, preferivo Gattuso… e quindi il 17 ottobre 2006 me sto lì in ufficio alle otto e mezzo e quando arriva il capo, verso le nove meno un quarto, mi trova già lì e lo so che si sorprende, gli deve essere sembrato strano, era una delle poche volte in cui arrivavo prima di lui da quando lavoravo lì, ma va così: ci salutiamo, lui va nella sua stanza a lavorare, io sto nella stanza che divido con la mia capa, pure lei deve ancora arrivare, di solito arriva nel pomeriggio perché al mattino ha un altro lavoro ma anche lei per qualche motivo quel giorno arriva in mattinata, e va così che me sto a lavorare quando a un certo punto mi arriva un sms di una ragazza che conosco, Samantha, una che abita nella città dove sono cresciuta, Milano, e Sam mi scrive soltanto questo, mi scrive “Tutto bene?” e poi mi chiede se per caso mi trovassi in metropolitana, così è un attimo: sono davanti al computer, apro Google, faccio una ricerca, scopro che c’è stato un incidente a Roma in metropolitana, un incidente grave, si sono scontrati due treni e non è successo da molto, quando lo scopro, e guardo l’ora e come si fa in questi casi mi preoccupo ma non del tutto, perché gliel’avevo detto ad Alessandra di venire in ufficio prima, ma forse lei a differenza di me, che ho sempre paura a chiedere un’informazione, ecco forse lei si è fermata al gabbiotto, ha scoperto che alla fin fine lo sciopero non c’è e adesso arriverà alla solita ora… e però l’ANSA dice che l’incidente c’è stato alla fermata di Piazza Vittorio e tutte le metropolitane sono ferme, quindi se Alessandra è per strada sarà lì bloccata da qualche parte, dovrà prendere una sostitutiva, farà ritardo.

La chiamo e ha il telefono staccato, ma è normale, c’è caos in queste occasioni, lì per lì mi viene in mente che anche quando a settembre a Roma fanno la notte bianca c’è talmente tanto caos che i cellulari non funzionano, le reti sono sovraccariche, e sicuramente è uno di quei casi, lei sarà ancora lì sotto in metropolitana e il cellulare non le prende, perché nel 2006 il cellulare ancora non prendeva in metropolitana, sarà lì e aspetterà di uscire e vai a sapere.

Però il dubbio ce lo abbiamo, e allora che si fa in un ufficio in un momento del genere, non si fa niente, si continua a lavorare: un occhio alle notizie in tempo reale, l’altro alla posta elettronica, e poi si pensa a chi potrebbe preoccuparsi e si manda qualche sms per dire “sto bene, sono in ufficio e sto bene”.

E poi le notizie continuano.

C’è una vittima nello scontro tra i due treni.

Ma dicono che è un uomo.

Poi dicono che è una donna, straniera.

Poi iniziano ad arrivare le telefonate.

Una telefonata di un parente, perché è a casa dove abitano i genitori di Alessandra, che sono in pensione, e vivono nel Frusinate, e da quella casa quest’uomo chiama e ci chiede se Alessandra è arrivata, se abbiamo sue notizie.

Però no, di notizie non ne abbiamo.

Poi iniziano a telefonare i giornalisti.

Di solito non chiama mai nessuno al numero dell’ufficio, mai la mattina, mai così di frequente, e tra una telefonata e l’altra mentre ci fanno domande strane, alle quali lì per lì non so rispondere, ecco allora la mia capa legge una nuova notizia dell’ANSA, dove dicono che la vittima dell’incidente è una donna giovane di Pontecorvo, che è il paese di Alessandra.

Allora è così che lo capiamo.

Allora i giornalisti riprendono a chiamare, una di un importante quotidiano nazionale si presenta, nome e cognome, è insistente, mi dice che la famiglia di Alessandra ancora non sa che lei è morta, e lo sa perché prima di chiamare noi ha telefonato a loro.

Da lì in poi tutto cambia.

Succedono un sacco di cose quel giorno e nei giorni successivi, ma non è qui il tempo di ricordarle tutte, preferisco sempre ricordare Alessandra, una collega, una da cui e di cui ho imparato più dopo l’incidente che prima, perché tra noi esseri umani ci sono sempre queste distanze, che poi sono quelle che ci fanno vivere, sono spazi e non distanze, e le cose che ho imparato sono personali, e su di lei hanno anche scritto un libro, quindi va bene così, il suo nome c’è, qualcuno se la ricorda, ma forse tra tutte le cose che accadono in quei giorni sono altre che vorrei ricordare, vorrei ricordare la pochezza degli esseri umani che non capiscono che gli incidenti capitano, che il caso esiste, e che quando dico che ho paura a prendere la metropolitana mi rispondono stupidaggini tipo “ma no ma guarda che io la metropolitana la prendo tutti i giorni e non mi è mai successo niente”, e certo, gli vorrei dire, certo scusa dimenticavo che siamo tutti immortali, ma forse una delle più squallide cose nei giorni seguenti è la serie di email che riceviamo in ufficio, con allegati curriculum di statistici, email mandate palesemente perché la gente non si informa, non hanno neppure capito che in quell’ufficio dal nome altisonante lavoravano solo quattro persone, magari credono che sia un’azienda con migliaia di dipendenti, e al primo curriculum faccio finta di nulla, penso che se mandi un curriculum in un ufficio in cui è appena venuta meno una persona preziosa e qualificata in seguito a un incidente, un evento di pubblico dominio, per il quale c’è stato il lutto cittadino, come lavoratore e come essere umano ti qualifichi male, e poi però al secondo curriculum senza tante esitazioni inizio a rispondere, a far notare che in anni a quell’indirizzo email non è mai arrivato un curriculum di uno statistico, praticamente mai, e dopo tanti anni questo mi ricordo, tra le altre cose, e il resto riguarda Alessandra e la famiglia di Alessandra, ricordi tristissimi e pieni di calore umano al tempo stesso, e li lascio da parte perché non sono da condividere.

Questo accade, ad andarsene così, la metropolitana e il lutto cittadino, e Alessandra che non c’è più. Una ragazza di trent’anni, piena di qualità e senza la testa montata, e a dirlo sembra semplice invece è straordinario, in un mondo di egoriferiti, e allora la voglio raccontare così, questa storia, per ricordarla in un modo semplice, per fare girare ancora su Internet, dieci anni dopo, il suo nome.

La storia di una ragazza in metropolitana. La scrivo perché sono sicura che ormai quasi nessuno, dieci anni dopo, si ricordi di lei. Sono lunghi, dieci anni.

E dieci anni dopo è rimasta la targa alla fermata della metropolitana, l’hanno messa nel 2007, nel giorno dell’anniversario, in una cerimonia in cui eravamo in pochissimi, perché un anno dopo la città aveva già dimenticato, ma è normale, è un fatto umano. L’ultima volta che ci sono stata, alla fermata di Piazza Vittorio direzione Battistini, c’erano la targa e dei fiori finti con una fotografia. La targa è trasparente e fin dal giorno della cerimonia ho sempre trovato difficoltoso leggere la scritta.

La scritta dice: In ricordo di Alessandra Lisi.

Ho trovato questo post sul sito del Fatto Quotidiano che se ne ricordava nel 2012.

Dieci anni dopo sulle lamiere che rivestono il tunnel della metropolitana c’è ancora il segno del punto in cui una carrozza è entrata nell’altra carrozza, è come una cicatrice, sta lì a piegare il metallo. Da dieci anni.